Le startup e la valle dell’innovazione
Prendendo in prestito una metafora dalla botanica, l’innovazione è quanto mai antitetica alla gramigna. Non nasce spontanea né, tantomeno, è infestante. L’innovazione ha bisogno di processi di semina e fatica a svilupparsi proprio dove attecchisce la gramigna: terreni in cui, scelte sbagliate o mancanza di programmazione, hanno permesso che il tessuto economico venisse divorato, rendendolo arido e desertificato.
Proprio come la botanica, pianificare ecosistemi innovativi richiede tempo. La Silicon Valley e il suo ecosistema di startup, non è sempre stato come oggi lo vediamo. Ci sono voluti decenni da quando, nei primi anni ’70, si sono insediate le prime aziende del settore high tech. La capacità di produrre innovazione di un sistema, è stato il frutto di un percorso lento che portato ad affinare e ottimizzare un modello, da cui oggi sgorga innovazione, fioriscono startup e prosperano in simbiosi comunità che condividono obiettivi comuni di crescita e sviluppo. Le startup hanno un ruolo centrale all’interno degli ecosistemi dell’innovazione.
Sono molti i limiti strutturali italiani che ne hanno ostacolato lo sviluppo. A mancare non è stata tanto una politica di supporto alle startup quanto, semmai, la capacità di pianificare ecosistemi capaci di mantenere il paese sull’avanguardia nell’innovazione. Senza un ambiente favorevole le startup hanno faticato ad evolversi, non superando spesso i primi stadi di vita e portando i detrattori, a derubricarle come una delle tante tendenze importate da oltre oceano, ignorando che il modello. Le Cassandre delle startup hanno liquidato il tema come marginale nelle traiettorie di crescita del nostro paese, ignorando che proprio da questo ambito provengano, da San Francisco a Tel Aviv, passando per New Deli, molti semi dell’innovazione
Proseguendo con il parallelismo botanico, un seme piantato nel deserto, difficilmente può attecchire e germogliare, come anche in un terreno impoverito dei suoi nutrienti da erbe infestanti.
Il seme ha bisogno di terreno fertile, di condizioni atmosferiche adeguate, oltre che della cura esperta e paziente dell’uomo, che gli prepara il terreno, lo semina e lo accudisce nella crescita. Il seme deve essere annaffiato, concimato, ma anche potato, se necessario. In Italia sono mancati negli ultimi vent’anni non solo i fertilizzanti, fatti di capitali e strumentazioni di sopporto, ma anche il sapere esperto dell’uomo, necessario per accompagnarne il percorso di crescita.
Ma più di tutto, è mancata la visione del raccolto oltre che la definizione di giardino, inteso come il perimetro attorno alle startup. Grande Industria e Finanza a supporto, sono elementi imprendibili di un ecosistema innovativo. La mancanza di grande industria in Italia è un fattore cronico di debolezza che non ha contribuito a favorire lo sviluppo di ecosistemi di startup, come ben evidenziato dal mio maestro Riccardo Varaldo. Le poche presenti, non hanno sempre saputo intercettarne che opportunità che ne sono scaturite.
Negli Stati Uniti le grandi imprese riconoscono il valore delle startup, più snelle e con una capacità di risposta più rapida. Le nuove imprese hanno costi strutturali più bassi e sono avvantaggiate di fronte a costi di sviluppo di novità tecnologiche più alti, dimostrandosi più capaci di sviluppano più velocemente le early stage Technology. Negli Stati Uniti è la stessa grande impresa a coltivare nel proprio giardino spin-off e startup, in un rapporto simbiotico con Università e Istituti di ricerca. Il legame tra grande impresa e startup assume una rilevanza ancor più maggiore in un contesto come quello attuale in cui si assiste ad una crescente accelerazione dei cicli d’innovazione, grazie alla maggiore disponibilità di tecnologie di simulazione che riducono costi e tempi di sperimentazione, rendendo i processi di ricerca e sviluppo appannaggio non più esclusivo della grande impresa.
Insomma un frutto che la grande impresa può cogliere nel giardino sottostante, senza necessariamente coltivarlo in casa. Non è un caso che molte grandi aziende abbiano ridimensionato i propri laboratori di ricerca, rafforzando i rapporti organici con Università, centri di ricerca, pmi innovative e soprattutto, con startup innovative. È per queste ragioni che nell’ultimo bando emanato dalla Regione Umbria per i progetti di ricerca e sviluppo, abbiamo cercato di premiare il connubio tra questi soggetti. Occorre inoltre evidenziare come un ecosistema sia tanto più fertile, tanto più le piante nel giardino appartengono a specie diverse. Non è infatti un caso se oggi, quella che era stata battezzata come la valle del silicio, sia il più terreno più favorevole di incubazione nell’ambito Agritech.
Sotto il solo denominatore comune della tecnologia, imprese operanti in settori diversi sono diventate un sistema di attrazione di competenze ed esperienze diverse, proprio come in botanica accade con gli innesti. Saper unire due piante differenti richiede competenze specifiche, come anche incubare in serra prodotti capaci di crescere al di là dei ritmi delle stagioni o delle specificità territoriali.
Animazione, strumenti di accompagnamento e ambienti di incubazione e accelerazione sono fondamentali per favorire un ecosistema capace di veder crescere e prosperare un numero più elevato di startup. Proseguendo con la metafora della botanica, sono la serra dell’innovazione. Certo, a mancare in Italia è stato anche il capitale paziente, quello rappresentato negli Stati Uniti, dal sistema del Venture Capital e dei fondi di Private Equity, e che è stato la principale benzina a sostegno del sistema delle startup consentendo, ad alcune di queste, di sconvolgere modelli di business, spostando la crescita da un settore all’altro e raggiungendo livelli di capitalizzazione miliardari in tempi estremamente brevi, si pensi al caso delle biotech e quello più attuale delle fintech.
E’ evidente, da quanto detto, che le grandi città, si presentino come un luogo idealmente più fertile per sviluppare ecosistemi innovativi ed in cui le startup possano trovare un ambiente ideale di insediamento e crescita. Il luogo perfetto in cui trovare finanza, servizi dedicati, relazioni e un network di soggetti interessati, oltre che le competenze adeguate per sostenerne i percorsi di accelerazione. Questo non vuol dire che solo le grandi città o territori particolarmente evoluti, caratterizzati da una maggiore densità di grandi imprese, possano sviluppare adeguate politiche a supporto delle startup.
Gli ecosistemi si possono alimentare a vicenda. La relazione, ancor più della prossimità, è la chiava di volta di un ecosistema. Anche piccoli ecosistemi locali possono essere collegati, in un modello hub & spoke, a network più strutturati. Il digitale ha un ruolo fondamentale per accorciare le distanze, contribuendo a ridefinire il perimetro fisico degli ecosistemi. Si pensi a come oggi si possa parlare di comunità di startup nell’automotive localizzate tra Detroit e Berlino, fisicamente lontane ma con comuni intenti e ambiti applicativi.
Servono appunto obiettivi comuni e politiche di coordinamento, ed è qui che la politica può svolgere un ruolo determinante, favorendo rapporti strutturali tra città, regioni e atenei diversi, purché i soggetti coinvolti sappiano accettare le naturali gerarchie rinunciando, non cominciando a sgomitare per la leadership del processo. Alle istituzioni spetta anche il compito di creare ambienti e dinamiche che consentano di scovare le competenze, dare sfogo alla creatività, presentare le idee, rendendo il talento libero di esprimersi, ed in cui il germe dell’innovazione possa trovare l’ambiente ideale per instaurarsi e crescere.
Luoghi in cui poter trovare consulenti, soggetti esperti, incontrare imprese in cerca di innovazione e dove siano accessibili programmi di crescita. Tutto ciò non è ovviamente sufficiente, serve l’indispensabile concime della finanza, ma anche formazione in grado di trasferire, ai neo imprenditori, esperienza manageriale, in grado di aiutarli lungo la curva di apprendimento imprenditoriale, necessariamente fatta anche di insuccessi. Insomma, oltre i soldi, servono anche soggetti in grado di sfruttare la capacità di creazione del nuovo e renderla business, favorendo magari il collegamento con le realtà imprenditoriali all’interno dell’ecosistema.
Concludendo, ho spesso sostenuto che la Silicon Valley non fosse un luogo fisico particolare, quanto invece un diverso stato mentale. Il frutto di un modo diversa di guardare al futuro, una visione diversa di sviluppo, con il potere distruttivo della tecnologia, ma anche la pazienza dell’agricoltore che dissoda, semina e attende paziente il raccolto.
Michele Fioroni