Comunicazione politica e multicanalità: il caso Fedez.
C’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico.
Le polemiche relative alle esternazioni di Fedez sul palco del primo maggio pongono uno e più quesiti agli esperti di comunicazione politica.
Partiamo dal protagonista.
Di primo acchito potrebbe sembrare, che quella sinistra che ha subito drammaticamente lo spostamento del dibattito politico sui social, abbia trovato un personaggio ideale per incarnare i suoi valori in un mondo, quello dei likes, che fino ad oggi sembrava non appartenerle.
Una sorta di contro narrazione all’ “epica del capitano” usando un personaggio prevalentemente social (in evidente crisi di identità di carriera) nella piattaforma principale dell’era analogica, la televisione.
Un soggetto ideale, un prodotto imprenditoriale che incomincia a sentire vicino il momento della maturità nella curva del ciclo di vita del prodotto e insieme alla moglie, interviene sapientemente con un riposizionamento familiare sposando le cause sociali, dal Covid ai diritti civili.
Un’immagine ben diversa da quelli che festeggiavano il compleanno dentro un supermercato lanciando il cibo come fossero coriandoli.
Gli esperti di marketing non esiterebbero a descriverla come un eccellente esempio di multicanalità. E non sbaglierebbero affatto.
La narrazione del Fedez paladino dei diritti civili nasce proprio online. La teaser sul suo discorso, le stories in cui si mostra intento nella preparazione. Insomma, tutto sembrava alimentare le attese per un discorso che si preannunciava esplosivo.
E poi la telefonata, dove onestamente neanche il più ottimista dei creativi poteva trovare, nella dirigente Rai, un contributo così costruttivo alla Narrazione del marito di Chiara Ferragni. Diciamolo, la censura non ci piace, neanche un po’ ma che ci siano distorsioni nel sistema della televisione pubblica, non credo abbia fatto saltare sulla seggiola per lo stupore nessun italiano.
Non vogliamo entrare nel merito della tematica sui diritti civili, ognuno è libero di pensarla come vuole. Personalmente sono un vecchio liberale e non posso che essere dalla parte dei diritti, con le dovute eccezioni relative a chi non ha ancora gli strumenti per farsi un’idea propria, come nel caso dei minori.
Ma ai fini di questo post non credo sia rilevante come la pensi io, quanto soffermarsi sull’aspetto mediatico e della comunicazione che più appartiene alle mie competenze.
Siamo di fronte ad una nuova stagione della comunicazione politica? La politica sta cercando di sviluppare gli anticorpi rispetto agli algoritmi? La risposta non è semplice.
Certo ci sono pezzi di politica che hanno subito la rivoluzione dei social media senza nemmeno rendersene conto.
Uno strumento che avvicinava i leader alla base, senza filtri, riducendo le distanze e favorendo l’interazioni, mostrando spesso quel dietro alle quinte che da sempre è stato oggetto di mistero.
Insomma, grazie ai social una politica più vicina alla gente la cui diffidenza nei confronti dei media tradizionali si è trasformata in un cambio di canale.
La verità mediata da televisioni e giornali non era più credibile, il mio leader, si chiami Salvini, Grillo o Meloni parla direttamente a me.
Era il 2001 quando Silvio Berlusconi firmò nello Studio di Vespa, il suo primo contratto con gli italiani, diventando un landmark della comunicazione politica, in un’epoca in cui i cittadini sembravano ormai stufi della politica che “promette e non mantiene” e si avvertiva l’esigenza di costruire nuove dinamiche di rapporto con l’elettorato che aveva già incominciato a manifestare primi segnali di insofferenza verso le tradizionali strategie di comunicazione.
Si avvertiva fin d’allora la necessità di portare i discorsi quotidiani, quelli che si fanno in famiglia, al bar e sul posto del lavoro, nell’agenda elettorale, ed il Cavaliere aveva intercettato quel bisogno manifestando il suo impegno davanti a colui che in quella stagione, veniva visto come una sorta di notaio mediatico.
Le rivoluzioni della politica passano necessariamente attraverso i media, è solo questione di canali.
Da qui la crisi di televisioni e giornali e una minore passione per la tv di stato, con Vespa sempre più spostato nella notte e un palinsesto sempre meno degno di un’emittente pubblica.
I protagonisti del nuovo mondo possono diventare terreno di contesa per la politica, come già avvenuto negli Stati Uniti con Trump, le battaglie sui diritti civili rivelarsi perfette per la comunicazione multicanale. E fin qui, nulla da obiettare se non fosse per le condizioni di par condicio che dovrebbe garantire la televisione pubblica.
Al contempo, chi ha ruoli pubblici è libero di esprimere le sue opinioni fino ad un certo punto, assumendosi la responsabilità di un linguaggio discriminatorio e offensivo, che un’accurata strategia di comunicazione multicanale può di fatto far ricadere su un’intera parte politica. Bastano solo i giusti interpreti. Ed ecco che l’audience si espande in un istante, una minchiata detta diventa virale.
Il peso delle parole, appunto e il rischio che per evitare fraintendimenti prevalga sempre e solo il politically correct, a scapito proprio del pensiero diverso, di quello fuori schema e creativo.
Infine siamo proprio sicuri che la censura sia ancora solo possibile sulle televisioni di stato? Pensiamo davvero che l’algoritmo di Facebook sia la garanzia della democrazia?
Ai posteri l’ardua sentenza.
Michele Fioroni