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Alitalia, ultimo atto.

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Alitalia, ultimo atto.

C’è davvero bisogno di una compagnia di bandiera?

Chiunque si sia in qualche modo occupato di trasporto aereo sa bene che esiste una linea di demarcazione temporale legata alla liberalizzazione del mercato messa per prima in campo dal presidente statunitense Ronald Reagan. Con la deregulation del trasporto aereo si è assistito alla progressiva riduzione dell’ingerenza dello stato in uno dei settori più condizionati dall’intervento pubblico, dando vita ad un mercato con dinamiche concorrenziali molto più spinte che costringendo le compagnie aeree a ricercare livelli di efficienza maggiore.

A fronte del progressivo processo di liberalizzazione i major Carrier furono sempre più costretti ad orientarsi al cliente e a ricercare modelli operativi più efficienti.

Oltre a nuove dinamiche di mercato venne meno un principio che sembrava intoccabile, quello delle compagnie di bandiera, secondo il quale, per far volare i cittadini di un paese, fosse necessaria una compagnia nazionale posseduta dallo stato e fosse quindi inibita la nascita di operatori concorrenziali. 

Tra le prime vittime della deregulation furono proprio alcune compagnie di bandiera, troppo appesantite dalla presenza pubblica e incapaci di sopravvivere in un mercato molto dinamico e concorrenziale.

La storia è ormai conosciuta, il mercato espulse i soggetti meno efficienti (alcune grandi vittime come Panam, Twa, Sabena, ecc.) e nacquero le low cost, dimostrando con un nuovo modello di operations che fosse possibile fare utili anche nel settore del trasporto aereo.

Tralasciando la crisi attuale del trasporto aereo civile legata alla pandemia, vorrei soffermarmi sull’ennesima vicenda Alitalia, unica nel suo genere e che parte da un presupposto ormai fuori dal tempo, quello che serva ancora una compagnia di bandiera per far volare gli italiani.

Peccato che è ormai da anni che la concorrenza nel trasporto aereo si è ormai spostata dalle compagnie aeree ai sistemi aeroportuali, e che i nostri aeroporti possano al massimo essere hub di secondo livello. In soldoni, per spostarsi nel mondo avremo sempre bisogno, fatta salva qualche eccezione, di fare scalo a Parigi, piuttosto che Monaco o Amsterdam.

Alitalia è una vicenda tutta italiana, fatta di paradossi sindacali che hanno portato potenziali investitori esteri a dileguarsi negli anni uno dietro l’altro, e di imprenditori che in nome del tricolore, e con indole più speculativa che produttiva, hanno miseramente fallito nel ritirare su le sorti di una compagnia di fatto moribonda. 

Ed eccoci all’ennesimo piano di salvataggio, con l’obiettivo poco ambizioso di tenere in piedi una compagnia con 48 aereoveivoli, i sindacati più privilegiati d’Italia combattere contro le solite necessarie e drastiche azioni di razionalizzazione operativa, sentendosi portatori di diritti diversi rispetto a tutti gli altri lavoratori italiani.

Una mini-compagnia, è quella che dovrebbe uscirne, nulla a che vedere con la narrazione della grande compagnia degli italiani. Un obiettivo minimo e un risultato non scontato, con i sindacati più agguerriti d’Italia pronti a dare battaglia.

Un ultimo atto di accanimento terapeutico, nella speranza, dopo tanti anni, di consegnare finalmente Alitalia alle sorti del mercato, senza ulteriori dispendio di risorse pubbliche,  eterno ed equo legatore. E questa volta, speriamo davvero sia l’ultima.

Michele Fioroni

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